Il biologico può sfamare il mondo, lo dice uno studio americano. Nelle pagine del numero doppio di BioAgriCultura, Luca Colombo prova ad analizzarlo, integrando con considerazioni tratte da approcci e risultati che originano dal lavoro che FIRAB sta realizzando nel quadro di due progetti europei di ricerca, Glamur e Transmango, e che si ispirano alla stessa ratio che incardina l’articolo.
Una ricerca della National Academy of Sciences analizza per la prima volta 40 anni di ricerche scientifiche e centinaia di studi, che mettono a confronto l’agricoltura biologica e convenzionale attraverso quattro obiettivi di sostenibilità:
- produttività,
- economia,
- ambiente
- e benessere della comunità.
Il risultato? Nonostante la rapida crescita negli ultimi due decenni la produzione biologica attualmente rappresenta solo l’1% dei terreni agricoli globali, mentre dovrebbe avere un ruolo principe nel nutrire il mondo. Dare dello stolto a tanta parte di dibattito pubblico e letteratura scientifica concentrati sugli aspetti produttivistici in agricoltura può apparire arrogante, ma se oltre a indicare la luna si dettaglia anche il modo per raggiungerla, alla saggezza si unisce una visionaria pragmaticità.
Nell’articolo pubblicato su Nature Plants, dal titolo Organic agriculture in the twenty-first century, John P. Reganold e Jonathan M. Wachter, della Washington State University, si calano nei panni del saggio.
La pubblicazione non si limita a presentare tutte le caratteristiche per una decisa riabilitazione del biologico nel quadro delle correnti narrazioni legate alla sfida alimentare dei prossimi decenni, ma concorre a fornire una visione del sistema alimentare capace di soddisfare plurime esigenze di sostenibilità che la società esprime (o inconsciamente necessita). Un delicato colpo al cerchio dell’interesse collettivo e uno sonoro alla botte che vogliamo sempre piena, oltre a un terzo assestato alla foga mediatica sempre
più ubriaca di narcisismo culinario e carestie incombenti.
I due autori statunitensi svolgono pertanto un’operazione pedagogica meritoria, proponendo una metrica articolata su quattro diverse chiavi di sostenibilità: produttività, impatto ambientale, vitalità economica e benessere sociale. Non esplicitata la dimensione della salute, questa è comunque presente sia in chiave di offerta nutrizionale che di assenza di residui di pesticidi (nell’ambiente di coltivazione e negli alimenti) da parte del biologico.
Quanto più si analizza in maniera sistemica e si contempla l’insieme dei costi e l’insieme di beni e servizi generati dai diversi modelli di produzione agricola, tanto più l’azione scientifica corrisponde anche a un’operazione culturale ed educativa. Con il loro articolo, Reganold e Wachter smontano la retorica dell’intensificazione sostenibile (produrre di più con meno input) e puntano alla sostenibilità dell’intero sistema alimentare chiamato a produrre meglio e con meno costi sociali, economici e ambientali.
La metanalisi dei due autori è ben riassunta nella figura centrale (petalosa, verrebbe da dire) usata nel report che qui riproduciamo:
– delle quattro dimensioni di performance (o di sostenibilità), emerge che il biologico sconta solo un gap produttivo (in termini di rese), mentre appare più efficace nel rispondere
agli altri obiettivi ‘sistemici’.
Il quadro ci riporta dunque ai soliti termini del dibattito in agricoltura, ossia quali ne debbano essere gli obiettivi primari: produrre biomassa o soddisfare una funzione molteplice (con al centro la generazione di alimenti)? Gli autori analizzano e comparano, sulla base della metanalisi della letteratura scientifica, per ogni dimensione la performance dell’agricoltura convenzionale e di quella biologica.
Gli autori toccano anche un punto cruciale: se le esternalità negative dell’agricoltura convenzionale fossero imputate nel prezzo delle derrate, il differenziale di reddito salirebbe sensibilmente (si è stimato che la conversione a biologico dell’agricoltura britannica ne ridurrebbe le esternalità del 75%, da 1.514 a 385 milioni di sterline all’anno).
Infine il benessere, o la questione sociale, dove si imputa al bio una maggiore forza ‘socio-culturale’ dovuta al rafforzamento delle comunità, migliore cooperazione tra i produttori e interazione tra questi e i consumatori, maggiore ruolo del fattore umano nell’attività agricola, con conseguente risvolto occupazionale.
In sostanza, come sottolineano gli autori, “la performance dei sistemi biologici nel contesto delle metriche di sostenibilità, indica che questi meglio bilanciano obiettivi molteplici di sostenibilità rispetto all’agricoltura convenzionale”.
Perché allora il biologico, pur crescendo a ritmi incomparabili con altri metodi e modelli colturali, resta a percentuali esigue? Reganold e Wachterdel individuano vari ostacoli nell’affermazione piena del settore: dai potenti interessi antagonisti (i soliti: multinazionali dell’agribusiness, industrie agrochimiche, aziende agroalimentari), all’indifferenza delle politiche, alla scarsità di informazione e conoscenza, alla debolezza delle infrastrutture. Dito puntato in particolare sulla pochezza di fondi pubblici e privati destinati a ricerca e sviluppo nel settore, rispetto a quanto viene destinato all’agricoltura ordinaria. Altro che luna.
Su questi aspetti di blocco si concentra l’esortazione finale dell’articolo:
– dare pari dignità alle quattro aree di sostenibilità (produzione, ambiente, economia, benessere sociale) incoraggia l’innovazione da parte di agricoltori e ricercatori e dà una spinta di sviluppo al settore nel quadro del perseguimento dell’interesse generale.
A tal fine è necessaria una mobilitazione che incalzi i policy makers, il sistema di ricerca, l’apparato produttivo: “non un piccolo impegno, ma dalle possibili grandi conseguenze per la sicurezza alimentare e degli ecosistemi”, chiosano gli autori.
Come nota a margine,desidero integrare due brevi considerazioni tratte da approcci e risultati che originano dal lavoro che FIRAB sta realizzando nel quadro di due progetti
europei di ricerca, Glamur e Transmango, e che si ispirano alla stessa ratio che incardina l’articolo.
- Il primo mette in evidenza come le aspettative sociali e le esigenze di rigore analitico inducano a guardare alle performance delle filiere (e per estensione del sistema alimentare) nel quadro di un insieme di dimensioni (Glamur ne ha prese cinque in considerazione: ambientale, economica, sociale, della salute, etica): la complessità che ne emerge aiuta a meglio identificare i margini di azione e miglioramento di performance di singole filiere o ambiti produttivi.
- Il secondo, che analizza le vulnerabilità del sistema europeo di sicurezza alimentare, pondera l’attenzione alla ‘disponibilità’ di alimenti non solo incrociandola con le tre altre dimensioni tradizionali della food security (‘accesso’, ‘utilizzo’ e ‘stabilità’), ma integrando anche la componente del ‘controllo’ quale elemento essenziale nel definire le coordinate di un dato sistema alimentare.
In sostanza, il quanto si produce non può essere dissociato dal come lo si faccia, dal dove e a cosa sia destinato, dal perché delle scelte e dal chi ne tiri le fila. Reganold e Wachter, analizzando la letteratura scientifica e comparando sistemi produttivi biologici e convenzionali, sono dunque andati ben oltre la sfida puerile del ‘chi vince?’: hanno contribuito a resettare l’attenzione sul combinato disposto di produzione di alimenti e generazione e tutela del bene comune, rendendo la luna più vicina e difficile da ignorare.
Per approfondimenti, pagine 6-9 del numero doppio 155-156 BioAgricultura.
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