Nel quadro delle iniziative del G8 a presidenza USA, la scorsa settimana i vertici dell’Amministrazione statunitense (da Obama alla Clinton) hanno presenziato a un Forum di alto livello sulla sicurezza alimentare, con un chiaro focus sull’Africa. Oltre a diversi capi di governo africani, tra i quali leader con deficit democratico come il primo ministro etiope Meles Zenawi, hanno preso parte anche i top manager di 45 multinazionali dell’agroindustria fra cui Monsanto, Syngenta, Yara International, Cargill, DuPont, and PepsiCo che hanno dichiarato impegni per 3,5 miliardi di dollari in investimenti in Africa. Puro business, non filantropia, per quanto discutibile spesso sia. L’Africa è ormai da alcuni anni terra di conquista, anche letterale in considerazione dell’estensione del land grabbing nel continente stimato in almeno 20 milioni di ettari, per il potenziale di mercato che offre al commercio di input produttivi, per le materie prime agricole cui attingere, per il dumping di commodity e prodotti trasformati da vendere a un crescente ceto medio urbano. È, ovviamente, anche ambìto sbocco per gli OGM, ma su questo terreno si registra un’inaspettata impasse: secondo fonti di stampa, il Burkina Faso avrebbe rinunciato al cotone transgenico in ragione dei deludenti raccolti e della povera qualità della fibra. Una notizia eclatante, se confermata, in considerazione del ruolo di apripista nell’Africa sub-sahariana che le autorità del Paese hanno svolto.
Due note a margine:
- Al forum statunitense hanno partecipato anche le principali organizzazioni internazionali impegnate sui temi agricoli e di sviluppo, ma non la FAO: segno di autonomia o di mancato aggancio al treno?
- Se il Burkina manda in fumo un decennio di lobby dell’industria biotech mutinazionale, il Sudan apre invece alla cooperazione bilaterale con la Cina decidendo di avviare coltivazioni di cotone GM sviluppato dal gigante asiatico. Cotone transgenico a parte, è chiaro che l’Africa è campo di battaglia geopolitica e l’agrolimentare l’arma più affilata.