Mi sono sempre spacciato sul metro e settanta, ma probabilmente non ci arrivo. Ora scopro che sono l’ideotipo cui ispirarsi per disegnare l’uomo del futuro in tempi di caos climatico. Lo scrivono 3 filosofi di Oxford e della New York University, mica bruscolini, su un numero della rivista Ethics, Policy and the Environment di prossima uscita, in un articolo dall’inequivocabile titolo Human Engineering and Climate Change. Bisogna puntare sulla manipolazione umana volta a ottenere modifiche biomediche che adattino l’uomo al cambiamento climatico e aiutino a mitigarlo, è la tesi dei tre autori. Stretti nella morsa manichea tra geo- e antropo- ingegnerizzazione scelgono la seconda che si dimostrerebbe meno pericolosa rispetto all’alterazione della riflettività atmosferica tramite aerosol solforico o alla fertilizzazione degli oceani con ferro per stimolare la moltiplicazione di placton CO2ivori, pur senza sottostimare i rischi sanitari ed etici di tale scelta, comunque gestibili.
L’idea trainante è che attraverso interventi genetici o trattamenti ormonali si aiuterebbero i neo-genitori a selezionare figli più piccoli dalla minore impronta ambientale, ovviamente su base volontaria: mangerebbero di meno, consumerebbero meno energia per esempio richiedendo meno carburante all’auto e meno tessuto per vestirli, citando esempi fatti dagli autori. Un’eugenetica forse diversa da quella pianificata da Adolf Hitler e Josef Mengele, ma pur sempre selezione genetica di esseri umani per rispondere a missioni salvifiche. Geni che aiutano a decrescere, dunque, siano essi gli autori del paper o quelli da manipolare nel DNA umano.
Ottimo esempio di estremizzazione del dibattito scientifico e sociale, non c’è che dire, ma anche perfetta parabola dell’approccio tecnicista alla soluzione dei problemi di mal-sviluppo. La Conferenza Rio+20 sullo sviluppo sostenibile, in programma a Rio de Janeiro a giugno, si avvicina e seppur lontani dalle ipotesi dei tre filosofi, l’enfasi è destinata a cadere su promesse e vantaggi delle green technologies, mentre una approfondita riflessione sul cambiamento di paradigma della crescita a ogni costo, con la connessa inevitabile corsa all’accaparramento delle limitate risorse naturali, rischia di rimanere inevaso.
Il bio si offre come modello di sviluppo ancora prima che come tecnica. Da questa altezza vorremmo si ripartisse.