La domanda di cibo biologico cresce senza sosta: recentemente, a conferma del boom di vendite registrato in questi anni, il giro d’affari del settore ha quasi toccato i 2,8 miliardi di euro secondo stime della Fondazione di ricerca Firab su dati AssoBio, Ismea, Nielsen e Nomisma e dal proprio Osservatorio, sia per quanto riguarda il mercato domestico (off-trade) sia per il canale extra-domestico (on-trade), riconducibile alle vendite da parte della ristorazione, dei bar e del food service. Cresce anche grazie alla diffusione di un nuovo modello di consumo, in cui il cibo non è più la risposta a logiche di sfruttamento che offendono la terra, ma che richiede una maggiore attenzione all’impatto ambientale che generano le attività agricole, riduzione degli sprechi e quantità, senza perdere di vista la qualità e il valore da ridare a ciò che mangiamo, nella salvaguardia dell’ambiente e della sua ricchezza in termini di biodiversità!
Come diceva Maya Angelou: «E’ tempo che i genitori insegnino presto ai giovani che nella diversità c’è bellezza e c’è forza.»
È arrivato il tempo che i grandi insegnino ai più piccoli che mangiare bio fa bene, perché è un cibo sano, più ricco di sapore ma anche di sapere, di cultura e biodiversità!
Questa attenzione verso una corretta e sana alimentazione, come quella biologica, diventa ancor più evidente nel canale delle mense scolastiche: nonostante la crisi, sulla scelta del biologico nelle scuole non si torna indietro. Educa i più piccoli e al tempo stesso dà il buon esempio ai grandi, alla comunità: ecco perché le mense scolastiche che fornioscono menù biologici, censite da Bio Bank fin dal 1996, quando erano appena 72, poi aumentate a 608 nel 2004 fino a superare quota 1.250 nel 2015, sono più che raddoppiate nell’ultimo decennio. Oggi vediamo, quindi, che il comportamento dei consumatori può avere un ruolo decisivo nella tutela dell’ambiente e nel preservare la biodiversità: chi acquista prodotti che derivano dall’agricoltura biologica contribuisce a contrastare la perdita di biodiversità nelle campagne a beneficio dell’ambiente e del paesaggio naturale. Diverse sono le ragioni che possono spiegare l’influenza positiva dell’agricoltura biologica sull’ecosistema: in primis, non vengono impiegati pesticidi e fertilizzanti sintetici e tutti i mezzi tecnici con impatto ambientale (locale e globale); poi la gestione simpatetica delle aree vicine non coltivate, come siepi, stagni, che contribuiscono ad ospitare diverse specie animali e vegetali ed infine, l’impiego di tecniche di coltivazione biologica che accompagna la pratica dell’allevamento, diversificando gli habitat sui terreni agricoli e favorendo la ricchezza di specie animali e vegetali.
Lo confermano anche i dati di una ricerca dell’Università di Oxford, pubblicati sul Journal of Applied Ecology: le aziende biologiche aumentano la ricchezza di piante, insetti e altri animali in media del 34% rispetto a quanto fanno le aziende agricole convenzionali. Per inciso, la biodiversità agricola rappresenta una quota importante della biodiversità mondiale. Delle 250 mila specie di piante descritte in tutto il mondo, circa 30 mila sono commestibili e circa 7 mila sono utilizzate per l’alimentazione umana.
Secondo la Fao dalle trenta specie vegetali presenti si fornisce il 95% del fabbisogno alimentare mondiale e, tra queste, solo tre specie (riso, grano e mais) ne forniscono il 50%. Sempre la Fao ritiene che circa il 75% della diversità genetica delle piante coltivate sia già stata persa. Ecco perché è importante che vi sia un modello agricolo, come quello biologico, che sia a salvaguardia della biodiversità.
Livelli maggiori di biodiversità significano benefici tangibili, non solo per l’ambiente, ma anche per gli stessi agricoltori e per il mercato agroalimentare ed è per questo che AIAB, insieme a Miscugli.it, Arcoiris e FIRAB, con la supervisione scientifica del Prof. Salvatore Ceccarelli, lancia una campagna a tutela della biodiversità, del suolo e della libertà dei contadini per dimostrare come una manciata di semi può essere un grande capitale (www.aiab.it). Da non trascurare, infatti, che la biodiversità è un presupposto importante affinché molti processi ecologici che avvengono all’interno degli ecosistemi agricoli (tra cui l’impollinazione, la riduzione dell’erosione del suolo, la decomposizione del letame, il controllo naturale dei parassiti nel suolo) funzionino adeguatamente.
Ciò significa che, durante i periodi di siccità alcuni habitat come, ad esempio, i prati montani a elevata biodiversità risultano meno soggetti a fenomeni erosivi e più resistenti a stress biotici e abiotici, permettendo così di avere produzioni di biomassa più stabili.
Il biologico aiuta quindi la biodiversità che cresce in maniera netta su quel 11% della superficie agricola destinata al biologico nel nostro Paese. Gli habitat agricoli, caratterizzati da una maggiore ricchezza di specie, posseggono anche una maggiore capacità di adattamento e resilienza agli stress ambientali, e quindi ai cambiamenti climatici, secondo quanto oramai evidenziato da numerosi studi scientifici.
Peraltro il modello biologico, non solo risponde a richieste dei consumatori di prodotti sani, buoni, sicuri, equi e sostenibili, ma anche a quelle dei produttori nel fornire maggiore occupazioni, redditi elevati, oltre che – come visto – livelli maggiori di biodiversità.
Secondo i dati dell’Inea, oggi rinominata Crea, le aziende agricole bio generano maggiori profitti:
+ 30% circa il reddito netto, ovvero il compenso dell’imprenditore e della sua famiglia; +10% il fatturato delle aziende biologiche rispetto alle corrispondenti convenzionali.
Le aziende bio hanno un maggior ricavo che proviene da attività connesse (5%), quali l’agriturismo o il contoterzismo, contro il 2% del fatturato aziendale delle convenzionali; hanno meno costi correnti (beni di consumo, servizi prestati da terzi e altre spese dirette), perché impiegano una minore quantità di mezzi tecnici ma di contro, hanno maggiori costi relativi al lavoro perché fanno maggior uso di manodopera, così come richiesto dal metodo di produzione biologica: +20% di lavoratori rispetto alle corrispondenti convenzionali. Da considerare inoltre che, come riportato dal Crea, concorrono alla formazione del risultato reddituale anche i contributi comunitari percepiti con la politica agricola comune (Pac).
È anche vero che, sulla base delle elaborazioni fornite dal Crea per il periodo di programmazione 2007–2013, e quindi precendentemente alla Riforma della Pac, tali contributi sono stati maggiori, sommando gli aiuti del primo e del secondo pilastro, per le aziende bio di 4 punti percentuali, in media, rispetto a quelli percepiti dalle rispettive convenzionali, quest’ultime favorite al contrario dal primo pilastro.
Secondo gli ultimi dati Sinab l’agricoltura bio impegna oltre 55,4 mila operatori in termini di numero di imprese, che coltivano 1,4 milioni di ettari di terreno, aumentati del 5,4% rispetto al 2013, facendo dell’Italia una delle protagoniste del settore a livello europeo e mondiale.
Il 40% della superficie coltivata è a seminativi, tra cui i cereali da cui ricaviamo le eccellenze del Made in Italy, come la pasta; rilevante è la superficie coltivata ad olivicoltura e viticoltura, 170mila ettari di oliveti e oltre 72mila di vigneti, una estensione che porta l’Italia tra i maggiori produttori al mondo.
A fronte del consistente abbandono delle campagne che sta registrando l’agricoltura in generale, quella biologica impegna, invece, sempre più aziende, che solo nell’ultimo anno sono cresciute del 5,8% rispetto al 2013.
Se pensiamo che, in venti anni sono aumentate del 421% le aziende certificate bio, ciò vuol dire che, a fronte di un maggior impiego di forza lavoro, il 20% in più come già esposto, il biologico offre molte più opportunità di lavoro!
E sono sempre di più i giovani che scelgono di convertirsi al biologico: il 23% delle aziende è condotto da giovani di meno 39 anni (tale incidenza scende al 10% rispetto ai loro “colleghi” convenzionali) e uno su tre è donna, con maggiori livelli d’istruzione, motivati e consapevoli per la scelta fatta in agricoltura biologica, dotati di sensibilità ecologica ed etica; hanno inoltre una maggiore capacità di comunicazione nonché abilità commerciali e capacità di “fare sistema”.
Un settore che valorizza e monetizza le ricchezze del nostro territorio e le produzioni autoctone, avendo chiara la crescente sensibilità dei consumatori verso la sostenibilità ambientale e alimenti sani senza pesticidi, come ci dicono i dati sul boom di vendite di prodotti biologici italiani.
Sulla tavola delle famiglie italiane si propongono sempre di più prodotti maggiormente sicuri, sani, senza pesticidi, senza Ogm, ancora di più se in famiglia c’è un figlio piccolo! Due famiglie su tre, ovvero 18,4 milioni di famiglie italiane su un totale di 24,6 censite dall’Istat, acquistano prodotti biologici almeno una volta, secondo una ricerca Nielsen.
Risultato: più 20% le vendite di prodotti bio nella Gdo nel 2015, secondo gli ultimi dati Ismea-Nielsen, dopo un +12,6% nel 2014, secondo Nomisma, per quanto riguarda tutte le vendite delle referenze a marchio biologico, solitamente più costose, ma preferite in quanto sostenibili e ad alti contenuti valoriali, contro un calo di quelle degli alimentari convenzionali. Se poi si osservano i carrelli della spesa, ci si accorge che gli italiani amano sempre più mangiare ortofrutta fresca e trasformata (35%), pane, pasta, biscotti (23% degli acquisti biologici), latte e formaggi (12%) e uova (9%).
Peraltro, la presenza di tanta frutta e verdura bio è anche dovuta al fatto che il 7,1% degli italiani si dichiara vegetariano, o vegano, con una maggiore attenzione alla digeribilità dei cibi, al netto delle vere e proprie intolleranze, generando un ulteriore +18% del fatturato della Gdo per prodotti speciali come i senza glutine o gli alternativi al grano.
Sempre più italiani scelgono di acquistare, oltre che nei negozi specializzati e nelle grande distribuzione organizzata, anche tramite spacci aziendali, GAS, mercati contadini, tagliando l’intermediazione e rimodulando il loro modo di acquistare.
Recentemente, a conferma del boom di vendite registrato in questi anni, il giro d’affari del settore ha quasi toccato i 2,8 miliardi di euro secondo stime Firab su dati AssoBio, Ismea, Nielsen e Nomisma, sia per quanto riguarda il mercato domestico (off-trade) sia per il canale extra-domestico (on-trade), riconducibile alle vendite da parte della ristorazione, dei bar e del food service.
A ciò si aggiungono 1,4 miliardi di export (Nomisma), che crescono portando “alto valore aggiunto” al nostro agroalimentare che è presente sulle tavole di tutto il mondo: nel 2016, peraltro, la Firab stima una ulteriore crescita percentuale a due cifre.
Tra gli elementi che faranno da traino ulteriore all’espansione del bio, vi è anche la progressiva “fidelizzazione” dei consumatori, 70% degli attuali acquirenti, e la forte capacità del settore di attrarne di nuovi: quelli che ora non comprano bio sembrano molto più propensi di un tempo ad acquistare prodotti agroalimentari certificati bio – anche a fronte di quel “passaparola” che caratterizza il mondo “social” del bio – soprattutto se tali prodotti fossero in assortimento nei negozi abitualmente frequentati o se ci fosse una linea bio nel marchio che loro preferiscono acquistare.
Questo fa pensare che si sta allargando la base degli acquirenti, nonostante la crisi, per l’emergere di nuove modalità di acquisto a prezzi contenuti (come quelle proposte dalla vendita diretta e da altri canali della filiera corta, ma anche ad una presenza sempre maggiore della GD), e, soprattutto, al cambiamento culturale nello stile di vita, con un maggiore rispetto per i fattori etici, sociali e ambientali.
Alba Pietromarchi (alba.pietromarchi@firab.it)