Nel re-branding ministeriale del Governo Meloni, fatto di merito, natalità e made in Italy, la
sovranità alimentare assurge a stella polare del dicastero meno famoso di Via XX Settembre. Vero
che la cooptazione della sovranità alimentare a vessillo ministeriale ha in Europa un precedente
nell’attuale governo francese, ma – per quanto camuffata – Oltralpe è minore il rischio di
confonderla con il sovranismo.
A entrambi i governi, La Via Campesina, movimento contadino mondiale con centinaia di milioni di
aderenti, che coniò il concetto in risposta all’iscrizione dell’agricoltura nelle logiche di libero
scambio introdotte dal neonato WTO, non chiederà verosimilmente i diritti. Perché nell’idea di
sovranità alimentare vige un principio di condivisione del bene comune, ma soprattutto perché un
ragionamento internazionalista sui diritti conduce primariamente a quelli umani, sociali e civili e
non tanto a quelli di natura proprietaria.
È dunque una questione di valori di riferimento, oltre che di traduzione politica, a distinguere
quello che con Stendhal potremmo definire il Rosso e il Nero della sovranità alimentare.
Nel 1996 i movimenti sociali impegnati sui temi del cibo e dell’agricoltura adottarono la proposta
di La Via Campesina di riconoscersi nell’idea di sovranità alimentare quale – appunto – diritto dei
popoli al controllo decentrato sulle politiche produttive e distributive del cibo. Si basavano sul
principio che non esistendo un modello standardizzabile capace di garantire universalmente la
disponibilità e l’accesso agli alimenti, le nazioni e le comunità devono individuare le soluzioni per
loro più appropriate sulla base delle proprie necessità, priorità, ecosistemi e culture. Un esercizio
di sovranità che richiede pertanto autonomia politica ed economica per impostare politiche che
recepiscano le specificità agricole ed ambientali dei territori e quelle sociali e culturali delle
popolazioni, nel quadro di un confronto dialettico e partecipativo tra le rappresentanze
istituzionali e quelle sociali e agricole.
Un concetto che andava inoltre in chiara contrapposizione con le politiche neoliberiste di apertura
indiscriminata dei mercati agricoli, di commodification del cibo quale merce o biomassa
indifferenziata prona alla manipolazione industriale, di marginalizzazione del mondo agricolo
ridotto a manovalanza a servizio di logiche mercantili.
Per i movimenti sociali, il cardine delle politiche agricole è dunque il raggiungimento e
mantenimento di una sicurezza alimentare di cui non siano solo garantite disponibilità,
accessibilità e stabilità delle forniture alimentari, ma anche appropriatezza ecologica e culturale
del sistema di produzione e consumo, oltre al controllo sociale e democratico dei suoi presupposti.
È una chiave solidale e di rispetto che travalica i confini, è la rivendicazione dell’inclusione nei
meccanismi decisionali e di attenzione ai più vulnerabili in una logica redistributiva.
L’idea di sovranità alimentare va quindi collocata in seno a valutazioni politiche più ampie.
L’autonomia e l’autodeterminazione non dipendono infatti solo dall’autosufficienza alimentare,
ma dall’equilibrio sociale ed ecologico all’interno e tra i Paesi, costruendo percorsi di non-
dipendenza in aree cruciali quali la finanza, i fattori di produzione e la tecnologia. Significa altresì
garantire la sovranità sulle risorse genetiche contro la cosiddetta bio-pirateria, i brevetti sugli
organismi viventi o lo sviluppo di varietà sterili sotto il profilo biologico o giuridico che ledono i
diritti riproduttivi degli agricoltori.
Insomma, il Rosso della sovranità alimentare è quello che le ha fatto muovere i primi passi e ha
portato alla sua adozione da parte dei movimenti sociali del pianeta in una dimensione di dialogo,
solidarietà internazionale e prospettiva agroecologica.
Il Nero della sovranità alimentare andrà invece capito meglio nei prossimi mesi per poterlo
giudicare più analiticamente.
Se si guarda alle premesse, emerge il timore che si preoccuperà della produzione italiana ma non delle braccia migranti che ne generano gran parte, che spingerà la massimizzazione delle rese a fini di aumento dell’autosufficienza a scapito degli equilibri climatico-ambientali, che punterà all’eccellenza del Made in Italy da esportazione (fatalmente dipendente dalla mangimistica di importazione per la produzione di salumi e formaggi), che guardi al qui e ora dimenticando i meccanismi solidaristici sul piano internazionale e gli obblighi intergenerazionali, che usi la guerra e le crisi per l’accaparramento e lo stivaggio e non per costruire resilienza e sobrietà.
L’idea di sovranità alimentare può dunque oscillare tra opposti, scandita da quelli che Stendhal
avrebbe indicato come il Rosso della rivoluzione e il Nero della restaurazione. Restaurazione di
cosa esattamente, lo staremo a vedere. Forse non dell’autarchia, comunque, non foss’altro perché
la Politica Agricola Europea è una cornice ormai irrinunciabile per qualunque inquilino di Via XX
Settembre.
di Luca Colombo, Segretario FIRAB